LA RASSICURAZIONE COSMETICA: l’esagerazione del naturale come mito di innocuità garantita ?
Conosco Luigi Rigano da anni e lo considero un grande della cosmetologia mondiale. E’ membro Onorario della SICC (Società Italiana di Chimica e Scienze Cosmetologiche) e ha ricoperto cariche nel praesidium IFSCC (Federazione Internazionale delle Società dei Chimici Cosmetici). Questo articolo è tratto da un suo “storico” intervento all’interno della SICC.
LA RASSICURAZIONE COSMETICA: l’esagerazione del naturale come mito di innocuità garantita ?
Autore: Luigi RIGANO – RIGANO INDUSTRIAL CONSULTING & RESEARCH – ISPE
Milano
Nel mezzo del campo di battaglia delle comunicazioni, informazioni e disinformazioni riguardanti il settore cosmetico, possiamo partire con un esame delle esagerazioni e banalizzazioni che sempre più violentemente tempestano questo mondo speciale. Una bufera che non promette niente di buono.
Cominciamo dai siti internet. In uno di questi, alla domanda: “Cosa ritieni necessario per un ingrediente naturale ?” ecco una serie di risposte disponibili: “Coltivazione organica” o “Colture non GMO” o “Agricoltura locale” o “Processi agricoli sostenibili”, ma anche “Nessuna ulteriore esigenza”, lasciando così intendere che per definire il “naturale” basterebbero solo dettagli sulla coltivazione oppure soltanto la…parola.
Per seguire, in un sito destinato a “CONSIGLI PER L’ACQUISTO” si leggono le seguenti affermazioni apodittiche:
a) Al supermercato & in profumeria non si trovano veri tensioattivi delicati (!)
b) per capire la qualità di un detergente, non serve leggere tutto l’INCI, bastano solo i primi quattro ingredienti (quasi l’INCI fosse una dichiarazione di qualità)
c) Ma soprattutto: “non deve esserci il “lauryl” al secondo posto”
d) il “sodium chloride” deve essere dopo la betaina, mai prima (presupponendo che, se si fosse esagerato con il sale per ottenere consistenza) il prodotto sarebbe di scarsa qualità. Ciò potrebbe anche essere vero in alcuni casi, ma non copre la ampia gamma di possibilità formulative. La delicatezza di una formula non è data certo dalla quantità relativa di betaina.
Troviamo poi il famigerato BIO-DIZIONARIO, nella cui premessa l’autore afferma (immodestamente): è stato un “lavoro poderoso”, ma “essendo l’unico supporto di questo tipo esistente in Italia (qualità dell’unicità?), riteniamo che potrà essere utile a quanti non vogliano più farsi “fregare” da multinazionali senza scrupoli” (e se anche loro usassero il biodizionario ?) “o da produttori senza la necessaria coscienza o professionalità”: Questi ultimi aspetti peraltro non sono garantiti dal biodizionario, visto che l’autore (che evidente-mente si ritiene dotato della necessaria coscienza e professionalità) afferma :
4 – Continua l’autore: “Tutto è relativo: composizione INCI (cioè le parole strane in codice” (alla faccia dell’informazione trasparente!)… in ogni confezione di cosmetico) deve essere scritta partendo dal prodotto presente in quantità maggiore fino a quello minore. Dunque se trovate un prodotto inaccettabile all’inizio della lista è grave, molto meno se si trova in fondo alla lista”. In altre parole sarebbe la posizione che fa il veleno cosmetico! Senza considerare che l’elenco INCI non è esattamente in scala di contenuti. E il formulatore che avrebbe composto questa “lista di veleni”? Non dovrebbe essere deferito alle autorità ?
Passiamo alla lista: è organizzata con simboli semaforici: “(due bollini verdi): vai che vai bene; (un bollino verde): accettabile; (un bollino arancio): ci potrebbero essere dei problemi ma, tutto sommato si può chiudere un occhio soprattutto se il componente è alla fine degli ingredienti” (potremmo dire ai formulatori: tutto il male in fondo) “(un bollino rosso): grandi problemi, se ne sconsiglia l’uso a meno che sia il solo componente pericoloso e che sia tra i componenti presenti in misura minore (cioè elencato alla fine della lista INCI)” ancora della serie beati gli ultimi e “(due bollini rossi): inaccettabile”I criteri di attribuzione dei bollini sono in larga parte misteriosi. Sono citati allergeni, sostanze di sintesi alla rinfusa. Spesso un fornitore estero sembra favorito in questa selezione.
In un altro sito si legge: “PEG e loro derivati sono sostanze in parte di origine naturale, emulsionanti, che per loro composizione rendono la pelle più permeabile, alcuni sono irritanti. Per questo non dovrebbero essere presenti nei cosmetici che contengono prodotti chimici o nocivi, altrimenti passerebbero con più facilità la barriera epidermica”.
Equivale a dire che, in pratica, le sostanze esistenti non devono essere contenute nelle emulsioni. A meno di non decodificare “chimici” con “sintetici”.
Ancora, uno scambio di informazioni in rete: una madre chiede un consiglio sulla dermatite atopica del proprio bambino. Alla domanda “Esiste un rimedio naturale anziché la pomata cortisonica ?” La risposta è: “Olio di ribes nero (?)”. La madre dice “Ok, ma perché c’è il punto interrogativo ?”. Risposta : “la Dermatite atopica è un mistero già per i dermatologi… a maggior ragione per me”. La madre: male non farà…
Nei siti si legge anche una raccomandazione in stile controinformazione: “Se amate la fitocosmesi…: Cercate in INCI il nome botanico delle piante usate. Se c’è la parola naturale ricordatevi che è una definizione vaga, che non vi dà alcuna garanzia sugli ingredienti del prodotto ma fa pensare a un astuto sfruttamento dell’attuale tendenza o di un legittimo desiderio del consumatore di allontanarsi dal cosmetico tutto di sintesi…”
Che fare allora ? Non viene suggerita alcuna alternativa.
E’ poi recente la richiesta di chiarimenti ricevuta da alcuni giornalisti relativamente a una nota di agenzia che suonava così: “Vendevano grasso umano per cosmetici. Sgominata banda di killer peruviani”!
Insomma, gli allarmismi cosmetici sono infarciti di opinioni non ufficiali, gestiti da gruppi di pressione di dubbia autorevolezza e competenza, costellati di pseudo informazioni banalizzate ed spesso erronee.
Tutto questa confusione ha origini antiche: negli anni ’70 la composizione dei cosmetici era ignota al pubblico, il loro contenuto misterioso faceva richiedere a gran voce maggiore trasparenza. Anche perché i casi di intolleranza ai cosmetici aumentavano in proporzione all’espandersi del loro mercato. Arriva poi negli anni ’80 la chemofobia: tutto ciò che ha sospetto di essere chimico è pericoloso. Negli anni ’90 leggiamo finalmente in etichetta la composizione. Finalmente nota? No, incomprensibile ai più e piena di nomi appunto “chimici”. Si sviluppa allora la cosiddetta: sovrastima del naturale. L’ambiente è visto come un Eden che si sta dissolvendo: comincia la giardinificazione del mondo. Anche per un problema di mancanza di comunicazione: da un lato, i chimici, che parlano il linguaggio delle molecole, dall’altro i medici e biologi, che si regolano sul funzionamento dei tessuti, mentre i consumatori sono sensibili solo a terminologie alimentari.
Dopo timidi tentativi di vincere la barriera inter-comunicativa, si è arrivati alla rinuncia. Del Dermatologo: l’importante è che funzioni, ma soprattutto non dia reazioni avverse. Ma se il cosmetico funziona “troppo” c’è qualcosa che non va. E del consumatore: “per essere così gradevole deve essere pericoloso, .non trovo informazioni comprensibili e non so come scegliere tra tutto ciò che mi viene offerto. Mi affido alla contro-informazione”. Responsabile di questa rinuncia è il collo di bottiglia del nostro cervello. C’è un numero sempre maggiore di informazioni disponibili, ma al tempo stesso, sempre minore attenzione ad esse e bassa capacità di assimilarle. Come dice Paul Seabright, l’attenzione degli individui è una risorsa sempre più scarsa, in un mondo in cui tutti affermano tutto e il suo contrario. In effetti, viviamo in un mondo dominato da scienza e tecnologia, in cui pochissimi capiscono le cose che riguardano la scienza e la tecnologia. Il risultato ? Non mi fido delle informazioni tecniche, dice il consumatore medio, stiamo consumando e inquinando l’universo. La fabbricazione di sostanze è pericolosa e non ecosostenibile. Tuttavia, non si vuole rinunciare alle operazioni cosmetiche girnaliere. Addirittura i tensioattivi più comuni saranno proposti in versione “verde”, magari da canna da zucchero, con conseguente riduzione del 30% dei gas serra e i loro residui produrranno anche energia. In realtà la CHIMICA VERDE, secondo la United States Environmental Protection Agency, è qualcosa di più. Un movimento con scopi molto più complessi, che non merita nessuna banale demonizzazione. Di fatto, incoraggia prodotti e processi che minimizzano l’uso e la produzione di sostanze pericolose, la riduzione/prevenzione dell’inquinamento alla sorgente, promuove le sintesi che massimizzano l’incorporazione dei reagenti. Secondo la USEPA, le linee guida della chimica nuova sono relative alla preparazione di prodotti con scarsa tossicità umana/ambientale, riduzione dei consumi energetici, impiego di fonti rinnovabili, uso spinto della catalisi, ottenimento di prodotti di degradazione innocui e industrializzazione di sostanze a basso rischio incidenti.
Ne sono esempi l’ottenimento del glicole propilenico dalla glicerina e non più da petrolio, sintesi sviluppata nel 2006, la preparazione di esteri da sintesi enzimatica e la creazione di “grenness score” per qualificare i processi produttivi.
Le istituzioni più qualificate hanno capito da tempo che il termine “chimico”, al di là di alcuni errori del passato non significa, o non significa più, tossico o cancerogeno o basso derivato dal petrolio o comunque artificiale. Questo modo di isolare dal contesto un termine significa solo la “ranificazione” del naturale. La domanda che noi oggi dobbiamo porci è: è possibile dialogare con i paladini del cosmetico verde tramite il concetto di naturale qualificato? O di naturale trasparente ? o di strategia formulativa tradizionale ? Cancellando così definitivamente l’idea di un impossibile “assoluto naturale” ?
Formulare al confine tra vegetale estrattivo e sintetico avanzato richiede una serie di procedure troppo delicate per essere passate sotto silenzio o minimizzate. Significa selezionare e combinare gli ingredienti in modo intelligente, ricordandoci che stabilità, sicurezza ed efficacia di una formula non sono dipendenti dalla sola “naturalita” (?) degli ingredienti, ma dalla capacità del cosmetico di ripristinare l’ecosistema cutaneo, con gli obiettivi di evitare/ridurre tutte le manifestazioni di intolleranza, evitando ogni sostanza con effetti sensibilizzanti o limitandone l’azione mediante quenching. Rimediando ai fenomeni di disidratazione, danni di barriera, alterazione lipidica, denaturazione proteica, swelling del corneo, rimozione di protettivi idrosolubili, impedendo o bloccando il rilascio di mediatori dell’infiammazione. La vera naturalità sta nella semplicità (e non nella banalità) formulativa, nell’impiego di un numero di ingredienti limitato, evitando il processo usurato degli ingredienti di comunicazione, usando sì estratti vegetali, ma puliti (privi cioè di pesticidi, solventi di estrazione, sostanze incognite) e non alterati dall’età o dalla conservazione. Ma anche questi non possono essere gli unici criteri del progetto cosmetico. Se è vero che anche tracce di allergeni devono essere evitate, non possiamo arrivare alle forme di competizione sottrattiva oggi in atto, secondo cui il contenuto, ad esempio di Nickel, in certi prodotti viene reclamizzato a livelli più bassi del suo limite nel vino in Francia.
Qualità significa purezza certificata e livello basso di impurezze note, e non necessariamente assenza di idrocarburi. Insomma, non fumo ma dettagli: il minimo possibile di antibatterici, confezioni anti-inquinanti, ma senza rischi di scarsa preservabilità per chi usa il prodotto, stabilità finalmente controllata in dettaglio. Che è veramente la fonte dell’innocuita’ insieme a misure di efficacia regolarmente documentate.
Cosmetici la cui caratteristica è solo di essere eco-compatibili, chissà perché, sono caratterizzati da scarse promesse di efficacia. Perché non ne hanno abbastanza o perché basta la parola “naturale” a far funzionare il tutto ? Di solito, leggiamo solo su garanzie di tollerabilità ambientale come funzione primaria. Il ruolo delle formulazioni è ben altro: selezionare ingredienti benefici secondo criteri combinativi moderni per un’applicazione topica finalizzata al riequilibrio cutaneo, al rispetto degli ecosistemi cutanei. E’ ora di dire basta al cosiddetto “naturale senza prove di efficacia”: occorre più autenticità nelle dichiarazioni al pubblico da parte di tutta l’industria, gli operatori del mondo “organico” e del “naturale”. Come si è detto nel Sustainable Cosmetic Summit New York 2010. E’ purtroppo in atto quello che si chiama “greenwashing” ossia l’ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste da parte di aziende, industrie, entità politiche o organizzazioni, per creare immagine positiva o mistificatoria di proprie attività (o prodotti), oppure per distogliere l’attenzione da proprie responsabilità nei confronti di impatti ambientali negativi.
I cosmetici sono macchine complesse: non si possono giudicare solo dalla lista dei loro componenti. Bensì dall’esame del lavoro di assemblaggio, dai collaudi eseguiti su formule e prodotti, dalle competizioni vinte rispetto alla concorrenza, dalla durata di un marchio sul mercato. Di fatto, il cosmetico è un sistema complesso. Ritengo un oltraggio professionale continuo la sua riduzione a una mera lista ingredientistica, una sorta di demonizzazione strutturale acritica. Il cosmetico è un sistema complesso, dicevo, progetto e risultato di un assemblaggio multifattoriale, costituto da una strategia di scelte di sostanze e metodiche di miscelazione, di assicurazione della qualità, di una verifica attenta di compatibilità e stabilità e della possibilità di riproduzione dei risultati ottenuti con i prototipi, incluso i metodi di fabbricazione e i sistemi di trasporto. E il frutto di una serie di collaudi severi, incluse le valutazioni cliniche di efficacia su cute sana ma anche di stati di disequilibrio cutanei di volontari più sensibili della media della popolazione. Incluse anche misurazioni di parametri dermatologici, controlli strumentali per verificare il ritorno omeostatico della cute: riepitelizzazione, ripristino della barriera cutanea.
Non solo nella naturalità si trova l’equilibrio cosmetico ma in una scienza evolutiva e sociale che sia al tempo stesso verde, sicura e garantita. Gli scienziati e i tecnici formula-tori del cosmetico sono ormai saturi di profezie pseudo-ecologiche auto-realizzanti (bufale). Magari, per combattere tutto questo ed esprimere la fine della nostra capacità di sopportazione, si potrebbe proporre un nuovo nome per la nostra associazione. SICC potrebbe oggi voler dire: Stanchi di Informazioni Cosmetiche Confuse.
Luigi Rigano
copiaincollato da Rodolfo Baraldini il 31 gennaio 2012
LA RASSICURAZIONE COSMETICA: l’esagerazione del naturale come mito di innocuità garantita ?
Autore: Luigi RIGANO – RIGANO INDUSTRIAL CONSULTING & RESEARCH – ISPE
Milano
Nel mezzo del campo di battaglia delle comunicazioni, informazioni e disinformazioni riguardanti il settore cosmetico, possiamo partire con un esame delle esagerazioni e banalizzazioni che sempre più violentemente tempestano questo mondo speciale. Una bufera che non promette niente di buono.
Cominciamo dai siti internet. In uno di questi, alla domanda: “Cosa ritieni necessario per un ingrediente naturale ?” ecco una serie di risposte disponibili: “Coltivazione organica” o “Colture non GMO” o “Agricoltura locale” o “Processi agricoli sostenibili”, ma anche “Nessuna ulteriore esigenza”, lasciando così intendere che per definire il “naturale” basterebbero solo dettagli sulla coltivazione oppure soltanto la…parola.
Per seguire, in un sito destinato a “CONSIGLI PER L’ACQUISTO” si leggono le seguenti affermazioni apodittiche:
a) Al supermercato & in profumeria non si trovano veri tensioattivi delicati (!)
b) per capire la qualità di un detergente, non serve leggere tutto l’INCI, bastano solo i primi quattro ingredienti (quasi l’INCI fosse una dichiarazione di qualità)
c) Ma soprattutto: “non deve esserci il “lauryl” al secondo posto”
d) il “sodium chloride” deve essere dopo la betaina, mai prima (presupponendo che, se si fosse esagerato con il sale per ottenere consistenza) il prodotto sarebbe di scarsa qualità. Ciò potrebbe anche essere vero in alcuni casi, ma non copre la ampia gamma di possibilità formulative. La delicatezza di una formula non è data certo dalla quantità relativa di betaina.
Troviamo poi il famigerato BIO-DIZIONARIO, nella cui premessa l’autore afferma (immodestamente): è stato un “lavoro poderoso”, ma “essendo l’unico supporto di questo tipo esistente in Italia (qualità dell’unicità?), riteniamo che potrà essere utile a quanti non vogliano più farsi “fregare” da multinazionali senza scrupoli” (e se anche loro usassero il biodizionario ?) “o da produttori senza la necessaria coscienza o professionalità”: Questi ultimi aspetti peraltro non sono garantiti dal biodizionario, visto che l’autore (che evidente-mente si ritiene dotato della necessaria coscienza e professionalità) afferma :
- •1) “quello è il mio personalissimo punto di vista. Questo… per non caricare la cosa di significati che vanno oltre appunto la mia visione delle cose”. Peccato che gli operatori del settore più ingenui prendano poi per oro colato tali affermazioni, del tipo:
- •2 – “fino a qualche anno fa non avrei bocciato i derivati animali oggi … sì. …. anche la mia visione del settore … si evolve … è possibile che io intervenga cambiando alcuni giudizi, inserendo altre molecole… o altro…” (magari, con criteri più chiari ci si potrebbe affidare senza necessità di continua verifica)
- •3 – “tutto è relativo. In assoluto Bitrex (Denatonium Benzoate) è una brutta molecola, sintetica, ottenuta esclusivamente in laboratorio” (senza considerare che deriva dalla sintesi tra il comune zucchero e l’acido acetico) ” ebbene la sua funzione… è talmente importante (impedisce l’ingestione dei prodotti da parte di bambini, o non vedenti…) che lo considero come sostanza assolutamente da consigliare”. ( Rigano evidentemente pensava alla sintesi del Sucrose Octoacetate e non a quella del Bitrex )
4 – Continua l’autore: “Tutto è relativo: composizione INCI (cioè le parole strane in codice” (alla faccia dell’informazione trasparente!)… in ogni confezione di cosmetico) deve essere scritta partendo dal prodotto presente in quantità maggiore fino a quello minore. Dunque se trovate un prodotto inaccettabile all’inizio della lista è grave, molto meno se si trova in fondo alla lista”. In altre parole sarebbe la posizione che fa il veleno cosmetico! Senza considerare che l’elenco INCI non è esattamente in scala di contenuti. E il formulatore che avrebbe composto questa “lista di veleni”? Non dovrebbe essere deferito alle autorità ?
Passiamo alla lista: è organizzata con simboli semaforici: “(due bollini verdi): vai che vai bene; (un bollino verde): accettabile; (un bollino arancio): ci potrebbero essere dei problemi ma, tutto sommato si può chiudere un occhio soprattutto se il componente è alla fine degli ingredienti” (potremmo dire ai formulatori: tutto il male in fondo) “(un bollino rosso): grandi problemi, se ne sconsiglia l’uso a meno che sia il solo componente pericoloso e che sia tra i componenti presenti in misura minore (cioè elencato alla fine della lista INCI)” ancora della serie beati gli ultimi e “(due bollini rossi): inaccettabile”I criteri di attribuzione dei bollini sono in larga parte misteriosi. Sono citati allergeni, sostanze di sintesi alla rinfusa. Spesso un fornitore estero sembra favorito in questa selezione.
In un altro sito si legge: “PEG e loro derivati sono sostanze in parte di origine naturale, emulsionanti, che per loro composizione rendono la pelle più permeabile, alcuni sono irritanti. Per questo non dovrebbero essere presenti nei cosmetici che contengono prodotti chimici o nocivi, altrimenti passerebbero con più facilità la barriera epidermica”.
Equivale a dire che, in pratica, le sostanze esistenti non devono essere contenute nelle emulsioni. A meno di non decodificare “chimici” con “sintetici”.
Ancora, uno scambio di informazioni in rete: una madre chiede un consiglio sulla dermatite atopica del proprio bambino. Alla domanda “Esiste un rimedio naturale anziché la pomata cortisonica ?” La risposta è: “Olio di ribes nero (?)”. La madre dice “Ok, ma perché c’è il punto interrogativo ?”. Risposta : “la Dermatite atopica è un mistero già per i dermatologi… a maggior ragione per me”. La madre: male non farà…
Nei siti si legge anche una raccomandazione in stile controinformazione: “Se amate la fitocosmesi…: Cercate in INCI il nome botanico delle piante usate. Se c’è la parola naturale ricordatevi che è una definizione vaga, che non vi dà alcuna garanzia sugli ingredienti del prodotto ma fa pensare a un astuto sfruttamento dell’attuale tendenza o di un legittimo desiderio del consumatore di allontanarsi dal cosmetico tutto di sintesi…”
Che fare allora ? Non viene suggerita alcuna alternativa.
E’ poi recente la richiesta di chiarimenti ricevuta da alcuni giornalisti relativamente a una nota di agenzia che suonava così: “Vendevano grasso umano per cosmetici. Sgominata banda di killer peruviani”!
Insomma, gli allarmismi cosmetici sono infarciti di opinioni non ufficiali, gestiti da gruppi di pressione di dubbia autorevolezza e competenza, costellati di pseudo informazioni banalizzate ed spesso erronee.
Tutto questa confusione ha origini antiche: negli anni ’70 la composizione dei cosmetici era ignota al pubblico, il loro contenuto misterioso faceva richiedere a gran voce maggiore trasparenza. Anche perché i casi di intolleranza ai cosmetici aumentavano in proporzione all’espandersi del loro mercato. Arriva poi negli anni ’80 la chemofobia: tutto ciò che ha sospetto di essere chimico è pericoloso. Negli anni ’90 leggiamo finalmente in etichetta la composizione. Finalmente nota? No, incomprensibile ai più e piena di nomi appunto “chimici”. Si sviluppa allora la cosiddetta: sovrastima del naturale. L’ambiente è visto come un Eden che si sta dissolvendo: comincia la giardinificazione del mondo. Anche per un problema di mancanza di comunicazione: da un lato, i chimici, che parlano il linguaggio delle molecole, dall’altro i medici e biologi, che si regolano sul funzionamento dei tessuti, mentre i consumatori sono sensibili solo a terminologie alimentari.
Dopo timidi tentativi di vincere la barriera inter-comunicativa, si è arrivati alla rinuncia. Del Dermatologo: l’importante è che funzioni, ma soprattutto non dia reazioni avverse. Ma se il cosmetico funziona “troppo” c’è qualcosa che non va. E del consumatore: “per essere così gradevole deve essere pericoloso, .non trovo informazioni comprensibili e non so come scegliere tra tutto ciò che mi viene offerto. Mi affido alla contro-informazione”. Responsabile di questa rinuncia è il collo di bottiglia del nostro cervello. C’è un numero sempre maggiore di informazioni disponibili, ma al tempo stesso, sempre minore attenzione ad esse e bassa capacità di assimilarle. Come dice Paul Seabright, l’attenzione degli individui è una risorsa sempre più scarsa, in un mondo in cui tutti affermano tutto e il suo contrario. In effetti, viviamo in un mondo dominato da scienza e tecnologia, in cui pochissimi capiscono le cose che riguardano la scienza e la tecnologia. Il risultato ? Non mi fido delle informazioni tecniche, dice il consumatore medio, stiamo consumando e inquinando l’universo. La fabbricazione di sostanze è pericolosa e non ecosostenibile. Tuttavia, non si vuole rinunciare alle operazioni cosmetiche girnaliere. Addirittura i tensioattivi più comuni saranno proposti in versione “verde”, magari da canna da zucchero, con conseguente riduzione del 30% dei gas serra e i loro residui produrranno anche energia. In realtà la CHIMICA VERDE, secondo la United States Environmental Protection Agency, è qualcosa di più. Un movimento con scopi molto più complessi, che non merita nessuna banale demonizzazione. Di fatto, incoraggia prodotti e processi che minimizzano l’uso e la produzione di sostanze pericolose, la riduzione/prevenzione dell’inquinamento alla sorgente, promuove le sintesi che massimizzano l’incorporazione dei reagenti. Secondo la USEPA, le linee guida della chimica nuova sono relative alla preparazione di prodotti con scarsa tossicità umana/ambientale, riduzione dei consumi energetici, impiego di fonti rinnovabili, uso spinto della catalisi, ottenimento di prodotti di degradazione innocui e industrializzazione di sostanze a basso rischio incidenti.
Ne sono esempi l’ottenimento del glicole propilenico dalla glicerina e non più da petrolio, sintesi sviluppata nel 2006, la preparazione di esteri da sintesi enzimatica e la creazione di “grenness score” per qualificare i processi produttivi.
Le istituzioni più qualificate hanno capito da tempo che il termine “chimico”, al di là di alcuni errori del passato non significa, o non significa più, tossico o cancerogeno o basso derivato dal petrolio o comunque artificiale. Questo modo di isolare dal contesto un termine significa solo la “ranificazione” del naturale. La domanda che noi oggi dobbiamo porci è: è possibile dialogare con i paladini del cosmetico verde tramite il concetto di naturale qualificato? O di naturale trasparente ? o di strategia formulativa tradizionale ? Cancellando così definitivamente l’idea di un impossibile “assoluto naturale” ?
Formulare al confine tra vegetale estrattivo e sintetico avanzato richiede una serie di procedure troppo delicate per essere passate sotto silenzio o minimizzate. Significa selezionare e combinare gli ingredienti in modo intelligente, ricordandoci che stabilità, sicurezza ed efficacia di una formula non sono dipendenti dalla sola “naturalita” (?) degli ingredienti, ma dalla capacità del cosmetico di ripristinare l’ecosistema cutaneo, con gli obiettivi di evitare/ridurre tutte le manifestazioni di intolleranza, evitando ogni sostanza con effetti sensibilizzanti o limitandone l’azione mediante quenching. Rimediando ai fenomeni di disidratazione, danni di barriera, alterazione lipidica, denaturazione proteica, swelling del corneo, rimozione di protettivi idrosolubili, impedendo o bloccando il rilascio di mediatori dell’infiammazione. La vera naturalità sta nella semplicità (e non nella banalità) formulativa, nell’impiego di un numero di ingredienti limitato, evitando il processo usurato degli ingredienti di comunicazione, usando sì estratti vegetali, ma puliti (privi cioè di pesticidi, solventi di estrazione, sostanze incognite) e non alterati dall’età o dalla conservazione. Ma anche questi non possono essere gli unici criteri del progetto cosmetico. Se è vero che anche tracce di allergeni devono essere evitate, non possiamo arrivare alle forme di competizione sottrattiva oggi in atto, secondo cui il contenuto, ad esempio di Nickel, in certi prodotti viene reclamizzato a livelli più bassi del suo limite nel vino in Francia.
Qualità significa purezza certificata e livello basso di impurezze note, e non necessariamente assenza di idrocarburi. Insomma, non fumo ma dettagli: il minimo possibile di antibatterici, confezioni anti-inquinanti, ma senza rischi di scarsa preservabilità per chi usa il prodotto, stabilità finalmente controllata in dettaglio. Che è veramente la fonte dell’innocuita’ insieme a misure di efficacia regolarmente documentate.
Cosmetici la cui caratteristica è solo di essere eco-compatibili, chissà perché, sono caratterizzati da scarse promesse di efficacia. Perché non ne hanno abbastanza o perché basta la parola “naturale” a far funzionare il tutto ? Di solito, leggiamo solo su garanzie di tollerabilità ambientale come funzione primaria. Il ruolo delle formulazioni è ben altro: selezionare ingredienti benefici secondo criteri combinativi moderni per un’applicazione topica finalizzata al riequilibrio cutaneo, al rispetto degli ecosistemi cutanei. E’ ora di dire basta al cosiddetto “naturale senza prove di efficacia”: occorre più autenticità nelle dichiarazioni al pubblico da parte di tutta l’industria, gli operatori del mondo “organico” e del “naturale”. Come si è detto nel Sustainable Cosmetic Summit New York 2010. E’ purtroppo in atto quello che si chiama “greenwashing” ossia l’ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste da parte di aziende, industrie, entità politiche o organizzazioni, per creare immagine positiva o mistificatoria di proprie attività (o prodotti), oppure per distogliere l’attenzione da proprie responsabilità nei confronti di impatti ambientali negativi.
I cosmetici sono macchine complesse: non si possono giudicare solo dalla lista dei loro componenti. Bensì dall’esame del lavoro di assemblaggio, dai collaudi eseguiti su formule e prodotti, dalle competizioni vinte rispetto alla concorrenza, dalla durata di un marchio sul mercato. Di fatto, il cosmetico è un sistema complesso. Ritengo un oltraggio professionale continuo la sua riduzione a una mera lista ingredientistica, una sorta di demonizzazione strutturale acritica. Il cosmetico è un sistema complesso, dicevo, progetto e risultato di un assemblaggio multifattoriale, costituto da una strategia di scelte di sostanze e metodiche di miscelazione, di assicurazione della qualità, di una verifica attenta di compatibilità e stabilità e della possibilità di riproduzione dei risultati ottenuti con i prototipi, incluso i metodi di fabbricazione e i sistemi di trasporto. E il frutto di una serie di collaudi severi, incluse le valutazioni cliniche di efficacia su cute sana ma anche di stati di disequilibrio cutanei di volontari più sensibili della media della popolazione. Incluse anche misurazioni di parametri dermatologici, controlli strumentali per verificare il ritorno omeostatico della cute: riepitelizzazione, ripristino della barriera cutanea.
Non solo nella naturalità si trova l’equilibrio cosmetico ma in una scienza evolutiva e sociale che sia al tempo stesso verde, sicura e garantita. Gli scienziati e i tecnici formula-tori del cosmetico sono ormai saturi di profezie pseudo-ecologiche auto-realizzanti (bufale). Magari, per combattere tutto questo ed esprimere la fine della nostra capacità di sopportazione, si potrebbe proporre un nuovo nome per la nostra associazione. SICC potrebbe oggi voler dire: Stanchi di Informazioni Cosmetiche Confuse.
Luigi Rigano
copiaincollato da Rodolfo Baraldini il 31 gennaio 2012
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